24 maggio 2014

Ma sei commestibile?

Cara mamma, rieccomi ancora una volta sulla tua tomba. Da quando ti sei reincarnata sotto forma di un funghetto (a proposito, ma sei commestibile? scherzo! ahah), vengo qui molto più volentieri. Ho un sacco di cose da raccontarti. Per esempio di questa nuova collega di lavoro un po’ stramba, o del fatto che il mio maestro di Raccolta Differenziata Tibetana è rispuntato fuori dal nulla e ora si è piazzato a casa mia. O di Svetlana, che l’altro giorno sono andato a cena da lei e dal babbo e dopo pranzo siccome non sapevo che cosa dire le ho chiesto: com’era la vita in Unione Sovietica? E lei mi ha risposto (un po’ acida): che cazzo so io, io ho nato nel Novanta! Così ho scoperto che la nuova moglie di babbo, tuo marito, ha solo 24 anni! E io che gliene davo almeno 40. Dev’essere stata dura la vita a Vladivostok. Ma non parliamo di queste cose tristi. A proposito di funghi, la sai la barzelletta del fiorellino e del fungo? No? Ci sono un fiorellino e un fungo che si trovano vicini vicini. Un po’ come te coi fiori nel tuo vaso. Ecco perché mi è venuta in mente. Il fungo dice al fiorellino: come sono fortunato ad essere nato vicino a te, ma tu sei un fiore vero? No, scusa, mi sono sbagliato, non era così. Non sono mai stato un asso delle barzellette. Dunque è il contrario, il fiorellino dice: sono proprio fortunato ad essere nato vicino a te, così quando piove tu mi ripari dalla pioggia; ma dimmi, tu sei un vero fungo? No, aspetta, non gli dice così. Gli dice: ma tu sei un vero fungo o fungi da ombrello? No. Aspetta. Gli dice: ma tu sei un vero ombrello, o fungi da ombrello? E il fungo risponde: fungo. L’hai capita? Lui risponde fungo, ma non nel senso di fungere, ahahah, no, nel senso che lui è proprio un fungo. Che spasso. Lo sai ma’, alla fin fine sono molto contento che sei morta, perché ora parliamo molto di più io e te, più di quanto facessimo quando eri viva. Non vedo l’ora che muoia anche babbo, così potrò parlare in santa pace anche con lui.



(La “barzelletta” è di Achille Campanile.)

23 maggio 2014

Non incrociare mai i pattern

Creativa n.1 è entrata nel mio ufficio sventolando un post-it nero.
– E questo che significa?
Ommerda, ho pensato. Ho rovesciato le mani sulla scrivania, come per dire e io che ne so.
– Che roba è – ho chiesto.
– Un post-it nero. Era attaccato al monitor del mio pc. L’ho trovato lì stamattina, quando sono arrivata. Non c’è scritto niente. È uno scherzo? Un messaggio in codice?
– Hai provato a chiedere a n.2?
– Ho provato a chiedere a n.2.
– E?
– Mi ha detto che non lo sapeva, di chiedere a n.3.
– E tu sei andata a chiedere a n.3?
– E io sono andata a chiedere a n.3.
– E?
– Mi ha detto che non ne sapeva niente, di provare a chiedere a n.4.
– Mh. E hai provato a chiedere a n.4?
– Sì, ho provato a chiedere a n.4.
L’ho guardata negli occhi, in silenzio. Lei ha ricambiato il mio sguardo, senza aprire bocca. Ci siamo guardati per tre, quattro minuti, ogni tanto battendo le palpebre fuori sincrono. Poi non ce l’ho fatta più.
– E?
– Indovina. Mi ha detto che non lo sapeva, di venire a chiederlo a n.5. Ed eccomi qui. Meno male che siamo solo cinque.
Io ho riflettuto profondamente. Avevo passato una notte infernale, perché il mio maestro, che ha dormito sul divano, russa scompostamente, e poi non faceva che svegliarsi e andare in bagno e tirare lo sciacquone, per tutta la notte così. Quindi facevo un po’ di fatica a riflettere, a dirla tutta.
– E, dimmi, hai provato a chiedere a n.1?
– Sono io, n.1 – ha risposto lei, calma, come se la domanda facesse parte della procedura.
– Ah già!
– Vabè, non importa. Piuttosto, senti. Volevo condividere con te un’idea che mi è venuta – lo so che le idee noi le proponiamo in Sala Incubatrice, però ecco, volevo un tuo parere prima.
– Ti ascolto.
– Aspetta un attimo.
Ha appiccicato il post-it nero sulla mia scrivania ed è uscita di corsa. La gente fa continuamente cose che non capisco, sempre più spesso. Non so se è perché io capisco sempre meno, o se sono le cose a diventare sempre più incomprensibili, dev’essere un problema di pattern, che ne so, ho scritto la prima parola che mi è venuta in mente, pattern. N. 1 è tornata di corsa nel mio ufficio, aveva in mano un’arancia.
– Eccomi. Dunque, questa è un’arancia Clebbino, no? Un frutto che possiamo trovare al supermercato tutto l’anno.
– Sì, esatto.
– Bene. Però. Prendila in mano. Toccala.
Mi ha lanciato l’arancia, aspettandosi che io la prendessi al volo. Non l’ho presa al volo, non ho neanche alzato le mani dalla scrivania, mani che erano ancora rovesciate, con i palmi verso il soffitto, e così l’arancia mi è rimbalzata in fronte e da lì mi è caduta in mano. Quindi, in un certo senso, con il senno di poi, il senno e anche il senso di poi, in effetti sì che l’ho presa al volo, nonostante tutto. Ho rigirato l’arancia in mano.
– Non capisco. È una normale arancia – ho detto, mentre in testa mi rimbombava ancora quella parola: pattern, pattern, pattern…
– Senti la buccia. Non senti come è ruvida e rugosa? È la classica buccia d’arancia. Solo che, ho pensato, noi facciamo anche creme, creme per il viso, no?, creme che combattono quel fastidioso effetto di pelle a buccia d’arancia, ridonando alla pelle tono e sericità, noi combattiamo la pelle a buccia d’arancia e poi però lasciamo che la buccia d’arancia sia a buccia d’arancia, come se niente fosse? Ci contraddiciamo così? Perché non facciamo qualcosa, perché non creiamo una crema per combattere questo fastidioso inestetismo della pelle delle arance, per rendere anche le bucce delle arance lisce e vellutate, come ciliegie? Mai più bucce a buccia d’arancia! Questa è la mia idea. Che ne dici.
– È davvero un’ottima idea, n.1.
– Davvero?
– Davvero.
– Non lo dici solo perché, che ne so, perché sono una donna e vuoi tipo chiavarmi?
– No, ma come ti salta…
– Non vuoi chiavarmi?
– Sì, no, aspetta un attimo –
– Vuoi che cancelliamo quest’ultima parte? Da “non lo dici solo perché” eccetera eccetera?
– Forse è meglio.
– Forse lo è.
– Meglio non confondere i pattern.
– No infatti.
Ha sorriso.
– Allora grazie. A dopo.
Se n’è andata. Ho cominciato a sbucciare l’arancia e a mangiarla. Faceva schifo. Sul tavolo era rimasto il post-it nero. Tremava impercettibilmente, mosso da una brezza invisibile.

21 maggio 2014

Dipende da me

Il mio maestro è entrato in casa, circonfuso da quella che mi piacerebbe tanto definire “aura di misticismo”, ma che mi limiterò a chiamare “puzza rancida”. Indossava una camicia hawaiiana, ma faceva piuttosto pensare alle hawaii subito dopo un test nucleare. La sua faccia era fresca di rasatura, ma una rasatura imprecisa, che gli aveva lasciato ciuffi di peli grigi qua e là. Aveva le unghie delle dita listate di marroncino.
– Ehilà… – ha detto, e ha letto furtivamente su un foglietto stropicciato che teneva in pugno, – … Bandini! Come va?
Il mio capo, allarmato per la mia recente condotta al lavoro, lo aveva contattato e mandato da me. Per farmi, un seminario?, un corso privato?, una sessione di recupero? sulla RDTP, visto che avevo smesso di praticarla. Indossava un paio di sandali infradito, sopra a dei calzini di spugna neri, malandati. I calzini avevano un buco in corrispondenza degli alluci e gli alluci uscivano dal calzino, permettendogli di indossare, non senza qualche difficoltà, gli infradito.
– Maestro – ho detto io, non sapendo che altro dire, – maestro.
– Chiamami semplicemente “maestro”. “Maestro maestro” mi sembra eccessivo. Posso usare il tuo bagno?
Gli ho indicato la porta del bagno, ha attraversato il corridoio trascinando i sandali e si è chiuso dentro. Per una decina di minuti l’ho sentito fare rumori strani, come risucchi catarrosi e risate enfisematiche. Poi è uscito, e ho visto i suoi occhi puntare Dolly, riversa sul divano.
– Ti scopi le pecore finte eh?
Io ho sussultato. Nonostante fosse piuttosto malconcio, non aveva perso il suo acume. Questa cosa mi sollevava e mi imbarazzava allo stesso tempo.
– Be’, io. È una cosa momentanea. Me l’hanno regalata per il compleanno. Io non avrei mai. Avevo una bambola gonfiabile, ma me l’hanno uccisa. Cioè, bucata. E così… ho avuto problemi con l’elaborazione del lutto, cose così, e Dolly – la pecora gonfiabile, intendo, su questo mi ha aiutato moltissimo devo dire, a ricreare una specie di Eden nella mia testa, un luogo dove la morte è bandita e si vive in armonia con la natura…
– La mia era una battuta, Bandini.
– Ah. Sì, certo.
Mi ha spiegato che gli dispiaceva molto che avevo smesso con la RDTP. Ero stato uno dei suoi migliori allievi. Al tempo avevo acquisito una dimestichezza con i Pensieri Pinza che lasciava ben sperare. Quindi quando il mio capo lo ha chiamato spiegandogli la situazione, non ha esitato a interrompere le sue attività e a precipitarsi da me.
– Intende dire che è venuto gratis?
– Neanche per sogno, mi hanno pagato naturalmente.
Il maestro ha sorriso. Aveva i denti gialli, per la precisione giallo indiano: una gradazione di giallo derivante dal pigmento organico chiamato euxantato di magnesio. Il giallo indiano si otteneva in questo modo: si dava da mangiare a una vacca delle foglie di mango. Quindi si prendeva l’urina della vacca così nutrita e si mescolava con allume di potassio, solfato di magnesio, sali di ammonio, acqua ed euxantato. Lo so perché una volta ho guardato su Youtube un tutorial sui colori.
Il maestro ha continuato a sorridere. Aveva mangiato euxantato? Piscio di vacca nutrita a foglie di mango? Che cosa si aspettava che io facessi o dicessi, a questo punto?
– Hai la mente piena di merda, non è così? – ha detto, senza smettere di sorridere.
Sono crollato in ginocchio. Non riuscivo a parlare. Mi ha messo una mano sul capo. La sua mano tremava impercettibilmente.
– Ascolta, ti aiuterò. Sono disposto a riprendere con te il cammino interrotto. A raccogliere e conferire e differenziare i cosi.
– I cosi? – ho chiesto, con la voce che mi tremava – ma forse il tremore della mia voce proveniva da quello della mano del mio maestro, non so.
– I cosi, come si chiamano.
– I pensieri?
– Ma sì, quelli. Quanto fiato sprecato. A una condizione. Negli ultimi tempi ho fatto investimenti sbagliati. Posso usare di nuovo il tuo bagno? No, aspetta. Prima la condizione. Quanta poca lucidità tra la gente, hai notato. Che tu mi ospiti. Si tratta di questo. Che fai in ginocchio? Vuoi spompinarmi?
Mi sono alzato di scatto.
– Maestro, non ho capito.
– Era una cosa, una battuta.
– No, dico, non ho capito la condizione.
– La condizione! Che tu mi ospiti! Che mi ospiti in casa tua per tutta la durata del percorso di apprendimento.
– E quanto tempo è?
– Questo – ha incominciato, interrompendosi per scoreggiare – questo dipende da te. Posso usare di nuovo il tuo coso? Il bagno?
È andato a richiudersi di nuovo nel mio bagno.
Non so bene perché, quando mi dicono che una cosa dipende da me, ho l’impulso irresistibile di fare specchio riflesso.

9 maggio 2014

Il fascino dell’indifferenziato

Ero a casa che stavo studiando il modo di farmi succhiare il cazzo da Dolly, la mia pecora gonfiabile, quando hanno suonato al campanello. C’erano soltanto due possibilità, che fosse mio padre o che fosse qualche sconosciuto, perché ormai tutte le persone che mi conoscono (tranne appunto mio padre) non usano più il citofono, ma mi chiamano al cellulare per dirmi: sono qui, sono sotto casa tua. Non lo so a dire il vero perché facciano così, perché sentano il bisogno di scomodare un satellite in orbita geostazionaria a trentaseimila chilometri di distanza per farmi sapere che si trovano a pochi metri di distanza da me, quando gli basterebbe cliccare gratis su un pulsante di un apparecchio elettronico intercomunicante per avvertirmi della cosa. Tra parentesi, io ho sempre pensato per anni che i citofoni erano il futuro della telecomunicazione, ero convinto che i citofoni avrebbero soppiantato i telefoni, perché molto più pratici, tutti un giorno avremmo avuto in casa delle pulsantiere e accanto a ogni pulsante il nome della persona che volevamo citofonare, anche se questa fosse stata lontana centinaia di chilometri, ci sarebbero stati chilometri di cavi a collegare le case di tutti con tutti e così ci saremmo tutti potuti citofonare tranquillamente, senza bollette del telefono o altro, al massimo pagando un piccolo extra nella bolletta della luce, poi non so che cosa non abbia funzionato, come mai la citofonia non abbia preso piede, per me resta un grande mistero.
Sono andato a rispondere al citofono, non era mio padre.
Non ci potevo credere, era il mio maestro di Raccolta Differenziata Tibetana dei Pensieri.
Erano anni che non lo vedevo, dai tempi del corso aziendale intensivo di RDTP a cui fui implicitamente obbligato a partecipare insieme a tutto il Reparto Entropia. Fu lui a introdurmi alle meraviglie della Raccolta Differenziata Tibetana dei Pensieri. L’ultimo giorno del corso si congedò da noi con queste parole: “Il 90% dei pensieri è merda. Il 90% del restante 10% non merita comunque di essere tradotto in parole. E il 90% di quel 10% che merita di essere detto, non merita comunque di diventare azione. Ne deriva che solo il 10% del 10% del 10% dei vostri pensieri merita di uscire dalle vostre teste di cazzo per essere tradotto in atti. Cioè, lo 0,1%. Tutto il resto è entropia”. Che era poi il nostro lavoro, l’entropia. E infatti era quello il vero motivo per cui avevamo fatto quel corso: per applicare la RDTP al contrario, e cioè per generare entropia nell’ambiente di lavoro, cioè azioni inutili, parole inutili, pensieri inutili. Una valanga di merda. Eravamo pagati per quello. Se non che, io mi affezionai alla RDTP e cominciai a prenderla per il dritto, ad applicarla correttamente, perché mi faceva sentire spento, no, non spento: in standby. E così chiesi al mio capo di allora: posso fare la RDTP correttamente? Cioè, per conferire nella discarica dell’oblìo tutti quei pensieri inutili che popolavano la mia mente come imbucati molesti a una festa di compleanno i cui unici invitati eravamo io e me stesso? E il mio capo di allora, che era un tipo comprensivo, o forse solo strafatto di Noncipensare©, mi disse: “basta che non lo fai al lavoro”. E così feci. Cioè, così non feci, come lui mi disse di fare. Di non fare. Feci quello che lui mi disse di fare, di non farlo. Non feci quello che lui mi disse di non fare. Cioè feci quello che lui non mi disse di non fare. Mettiamola così: seguii le sue indicazioni.
Per un po’ feci la RDTP a casa, o nel tempo libero.
Qualche volta trasgredii, facendola in orario di lavoro. Non se ne accorse nessuno, in verità. O forse fecero finta di non accorgersi. Non lo saprò mai, perché ho buttato via gran parte di tutto quello che pensavo in quei giorni.
Poi, a poco a poco, ho smesso di fare la RDTP. Non lo so perché. Pigrizia mentale. Il fascino dell’indifferenziato.
E adesso, il mio maestro era spuntato fuori dal nulla e mi aveva citofonato.
Gli ho aperto, che altro dovevo fare.