27 settembre 2013

Sceneggiato vladivostokiano

A quel punto, Maya capisce che qualcosa non va.
– Qualcosa non va? – chiede. E mio padre, impassibile: no, perché?, e tira su il ferro da stiro rovesciando la piastra verso l'alto, e facendo uscire un getto rabbioso di vapore. Maya, sforzandosi di parlare lentamente e con calma, gli chiede di staccarlo, il ferro. Lui, per tutta risposta fa uscire un getto d'acqua con lo spruzzino verso di lei. Lei che caccia un urlo.
– Qualcosa non va? – le chiede lui, calmo.
Allora lei non regge la tensione, scoppia in singhiozzi. Mio padre riprende tutto posato a tostare la camicia sull'asse. Senza guardarla le dice:
– Mi tradisci.
Lei singhiozza più forte, mugola un no tra i singulti. Mio padre fa uscire un ruggito di vapore dal ferro da stiro.
– Dimmi la verità, o ti stiro – le dice piano, senza guardarla.
– No, ti prego.
Per tutta risposta mio padre ruota il pomello del ferro da stiro, alzando la temperatura. La camicia urla di dolore sotto la piastra. La stanza si riempie di vapore e bruciore. Maya smette di singhiozzare e dice sì, è vero, ti tradisco. E mio padre le dice: lo so, mica te l'avevo chiesto. Non c'era il punto di domanda. Hai visto qualche punto di domanda nell'aria piena di vapore e bruciore? No, non c'era nessun punto di domanda, era un'affermazione la mia. Tu mi tradisci, ti ho vista al mercato cinese ieri. E a quel punto lui alza gli occhi su di lei, e lei ribatte dicendo una cosa assurda, insensata.
– Non abbiamo comprato niente – dice.
Mio padre non si aspettava questa affermazione. Che modo di ribattere è? Anche il ferro da stiro smette per un attimo di eruttare vapore. Mio padre allora si mette a ridere.
– Sul serio ti sei messo a ridere?
– Non fa ridere? A me ha fatto ridere. E mentre ridevo mi sono reso conto improvvisamente che erano mesi che non ridevo. Che non ridevamo. Che ci stavamo a fare lì, io e lei, sulla collina di Vladivostok, senza mai incontrarci se non sulle scale? Che ci stavamo a fare se non ridevamo neanche più?
Allora in quel momento pure a Maya è scappato un sorriso. Un sorriso triste. Di quelli che è impossibile descrivere, e infatti non esiste mica l'emoticon per quel sorriso triste lì, non esisterà mai la faccina con quel tipo di sorriso lì, e questa, almeno per me, è una consolazione.
Due giorni dopo, Maya ha lasciato la casa ed è andata a vivere con il soldato russo. Mio padre ha cominciato a fare delle gran passeggiate da solo, prendeva la funicolare su fino al Monte del Nido dell'Aquila, e da lassù guardava la città, i giganteschi ponti e l'oceano, le vecchie navi militari nel porto.

– A che pensavi?
– Mi veniva voglia di prendere quelle navi militari, quei sommergibili, di salpare per la Kamčatka e da lì sferrare un attacco all'Alaska.
Poi un giorno Svetlana, la cameriera della pizzeria dove lavorava, lo ha invitato al suo compleanno a casa sua. Lei viveva in un piccolo appartamento in un grosso e grigio caseggiato della periferia vladivostokiana, dove si era trasferita dopo il divorzio. Alla festicciola c'erano anche gli altri colleghi di lavoro. Su un tavolino c'era una bottiglia di vodka, e un samovar elettrico con del tè. A una certa ora gli ospiti cominciarono ad andarsene, uno dopo l'altro, e rimasero solo mio padre, Svetlana, la vodka e il samovar vuoto. Andarono avanti tutta la notte a parlare, Svetlana perché era sbronza, mio padre perché era strafatto di caffeina.
– Vuoi dire teina.
– La teina non esiste. È un'invenzione della Clebbino. Si chiama caffeina, anche quella che c'è nel tè.
– A proposito, ho sempre pensato che la mia moka fosse nera, invece indovina? Non era nera, era solo sporca.
Parlavano un misto di anglo-russo-italiano pieno di gesti con le mani e di facce con la faccia, e si capivano benissimo, e sono andati avanti fino all'alba, e a quel punto l'effetto della caffeina e della vodka stava svanendo, e così mio padre ha detto che forse per lui era ora di andare, e allora Svetlana l'ha accompagnato alla porta, l'ha ringraziato e gli ha detto che quello era stato il compleanno più bello della sua vita. E sulla porta si sono abbracciati. E poi mio padre è uscito, fuori la temperatura era molto sotto lo zero, si è girato e ha guardato il casermone grigio stagliarsi contro il cielo dorato da un'alba vladivostokiana...
– Falla corta, babbo.
E niente, dopo un mese si sono sposati.
– Che cosa?
– In una chiesetta ortodossa.
– Ti sei sposato? Con Svetlana?
– Certo, con chi altri? E tra un mese – il tempo di sistemare un po' di cose – si trasferirà qua.
– Qua dove?
– Qua. In Italia. A casa mia.
– Qua? Nella casa di mio padre e mia madre?
– Tua madre è morta.
– E con questo?
Non potevo crederci. Io in due anni e mezzo nella Zona Deumanizzata non avevo combinato assolutamente niente, e nello stesso arco di tempo mio padre aveva attraversato la Russia in treno, aveva convissuto con una donna, si erano lasciati, aveva conosciuto un'altra donna e se l'era sposata. E adesso era tornato. E tra un po' lei sarebbe venuta a vivere da lui. E mia madre era morta. Ok, quest'ultima cosa non era successa negli ultimi due anni e mezzo, ma restava pur sempre valida: cioè, mia madre continuava ad essere morta. Anche adesso è morta, per dire.
– Tu fai le cose sempre di testa tua eh? A me non ci pensi mai neanche un secondo eh?
– Ho 65 anni! Devo chiedere il permesso a 65 anni?
– E io alla mia età devo ritrovarmi con una matrigna? Ma siamo matti, siamo. Non esiste. Perché non siete rimasti là? Perché non ti sei rifatto una vita a Vladivostok? Perché devi venire a rifartela qua, dove ci sono io, con tutti i miei ricordi? Lasciami i miei ricordi e tornatene a Vladivostok!
– Bada a come parli. Sono pur sempre tuo padre! Ricordati che neanche tanto tempo fa ero io a pulirti il culo!
– E tu ricordati che tra qualche anno sarò io, a pulirtelo!

25 settembre 2013

La fine di un continente

Appena arrivati a Vladivostok, mio padre e Maya si sono sistemati in un albergo fatiscente dalle parti del porto, gestito da un giapponese. Nelle prime settimane hanno vissuto come due sposini in viaggio di nozze. Facevano lunghe passeggiate sulla Fokina e poi sulla Svetlanskaja, passavano pomeriggi al giardino botanico, si sedevano sulle panchine della baia a guardare le vecchie navi militari e altre cose tipiche che si possono fare a Vladivostok. Dopo qualche tempo mio padre ha trovato lavoro come pizzaiolo in un ristorante del centro.
– Cosa? Ma se non ti ho mai visto fare una pizza in vita tua.
– Non è che tutto quello che non vedi non esiste, sai?
Dopo un po', lui e Maya hanno lasciato l'albergo e sono andati a vivere in una casa in affitto, su una delle colline della città. Maya iniziò a chiudersi in casa. Passava ore a guardare dalla finestra in direzione dell'oceano. Non sopportava il clima vladivostokiano, quelle piogge monsoniche che non finivano mai, il vento gelido che d'inverno faceva strillare i vecchi infissi, e altre cose climatiche di quel genere, tipiche di Vladivostok. Le mancava la sua edicola. Potremmo rilevarne una qua, le ha detto un giorno mio padre. Mi fanno schifo i caratteri cirillici, mi sentirei circondata, gli ha risposto lei. Alla fine anche lei si è trovata un lavoro, in una stireria&lavanderia coreana. Lei lavorava tutto il giorno fino alle sei, lui alle sei andava in pizzeria. Si salutavano per le scale, incrociandosi. A casa lei non stirava più ("Ogni volta che vedo un ferro da stiro mi metterei a urlare") e mio padre ha iniziato a indossare camicie stropicciate. Poi, niente. A un certo punto, non si incontravano più nemmeno per le scale. Mio padre usciva che lei ancora non era rientrata. Quando tornava a casa dalla pizzeria, a notte fonda, la trovava a letto, che russava. Lei diceva che aveva un sacco di lavoro da fare, faceva gli straordinari, per quello che rientrava tardi. Poi un pomeriggio di sole mio padre è uscito di casa prima del solito ed è andato a fare una passeggiata al mercato cinese, e l'ha vista, tra le bancarelle, abbracciata a un soldato russo. Si stava bene, al mercato cinese, e con il sole faceva quasi caldo, ed era bello stare abbracciate a un soldato russo, passeggiare tra le bancarelle di Vladivostok, lì, alla fine del continente. Era sicuramente così, no? Probabilmente, sì. Il giorno dopo quando è ancora buio, Maya si alza per andare al lavoro e sente puzza di bruciato. Non in senso figurato: c'era proprio qualcosa che stava bruciando. Corre in sala e trova mio padre, alzato, in mutande, che sta stirando una camicia. Tiene il ferro da stiro fermo sopra la camicia, e la camicia sfrigola e fuma.
– Che stai facendo? gli chiede lei.
– Mi piacciono tostate, le camicie – risponde lui.
– Davvero le hai detto così? – gli chiedo io.
– Aspetta, il meglio deve venire.

18 settembre 2013

Pura. Lana. Vergine.

Non ho ancora del tutto elaborato il lutto per la brutta fine di Betsabea. Mi manca enormemente. Mi manca a bestia poterle infilare il cazzo in tutti quei buchi plasticosi. Un sacco di gente si accontenta di fare sesso virtuale, si eccita con le webcam, le videochat, si masturba toccando touchscreen, io no, mi piace il sesso vero, fisico, reale. In fin dei conti sono un romantico vecchia maniera, oserei dire un romantico sturm und drang, anche se non lo so se ai tempi del romanticismo tedesco c'erano già le bambole gonfiabili, mi sa che la plastica e i suoi derivati non erano ancora stati inventati, forse usavano le bambole di cera. Erano tempi duri. Adesso le bambole le fanno in vinile, in lattice e in silicone. Betsabea era vinilica. L'avevo scelta così perché ho sempre sentito dire che il vinile ha un suono molto caldo, e mi era sempre sembrata una cosa sexy, e infatti Betsabea era calda e frusciante, proprio come un vecchio disco in vinile. E io ero la sua puntina. La sua puntina di diamante... devo smetterla, o diventerò pazzo. Ricordare fa troppo male.
Non c'è niente da fare, non sono ancora pronto per un'altra relazione seria con una bambola gonfiabile, per impegnarmi fino a questo punto. Non dopo Betsabea. Mi sembrerebbe di sostituirla, e lei non può essere rimpiazzata da nessun'altra bambola. Non ancora. La scorsa notte ero lì che mi rigiravo nel letto rimuginando i miei tormenti amorosi, e non riuscivo a dormire. Allora ho cominciato a contare le pecore. Una pecora, due pecore, tre pecore... e così facendo mi sono venuti in mente i pastori, e le storie sui pastori. Sembra che sia una pratica abbastanza diffusa tra gli operatori della pastorizia quella di sconfiggere la solitudine negli sterminati pascoli del globo facendo sesso con le pecore. Quattro pecore, cinque pecore... tutte quelle pecore che saltavano lo steccato, sculettando, provocandomi. Sei pecore, sette pecore, otto pecore. Così sinuose, soffici e lanose... pecore vizioselle, sporcaccioncelle. Nove pecore! Dieci pecore! Ormai ce l'avevo duro. Mi sono alzato con un'orgia di pecore in testa. Sudavo freddo, avevo la gola secca. Sono andato su Amazon e ho trovato quello che cercavo: pecore gonfiabili di tutti i tipi. Ho scelto il modello Merino, 50% vinile e 50% pura lana vergine, dal vello sofficissimo e con pratiche orecchie ergonomiche. Non vedo l'ora di inchiappettarmela.

17 settembre 2013

Mezza bellezza

Sono venuto via dalla Zona Deumanizzata perché ormai non è più così deumanizzata. Quando ci sono andato pensavo che la deumanizzazione fosse il futuro; invece il futuro è il centro commerciale. I primi mesi siamo stati bene, Ermete Dossi, Cinzia Pontesi e io (io sono Massimo Bandini. Piacere). Eravamo gli unici esseri umani, e poi c'erano i topi, i gatti randagi e i licheni. Mangiavamo i cibi in scatola trovati nelle dispense delle case abbandonate, Cinzia cucinava minestre di licheni, Ermete raccoglieva funghi, io andavo di nascosto in città a comprare confezioni da sei di acqua minerale naturale. Vivevamo nell'appartamento al quarto piano di una ex casa popolare, sul pavimento c'era una bellissima moquette naturale di licheni. Poi sono arrivate le puttane. Hanno cominciato a occupare appartamenti vuoti per portarci i clienti. Poi sono arrivati i clandestini. Finché c'erano solo puttane e clandestini, si stava bene; ma dopo è arrivata la civiltà, e la tranquillità è finita. Il Comune ha deciso che la ZD andava ripulita. Allora sono arrivate le ruspe e hanno cominciato a demolire interi isolati, mentre gli addetti del Comune portavano avanti la bonifica dai licheni, e poi è stato tirato su un centro commerciale, e intorno al centro commerciale dei grossi parcheggi, e i parcheggi si sono riempiti di macchine, e le macchine erano piene di famiglie, e così la Zona era ogni giorno più umanizzata e sempre meno deumanizzata, e una mattina mi sono svegliato, mi sono affacciato alla finestra e ho visto una gru. Non l'uccello; il macchinario edile. Bella, era bella; del resto, "altezza mezza bellezza" è un principio universale e vale anche in carpenteria, in architettura e in filosofia, oltre che in montagna. Sono rimasto a guardarla estasiato per mezz'ora, era bello e struggente, perché portava con sé un senso di fine di mondo.
Ermete e Cinzia dormivano ancora, allora ho scritto un bigliettino:

dalla finestra
ho visto una gru
me ne vado, ciao


e poi l'ho riletto, ed era una specie di haiku. Ma non l'avevo fatto apposta. Credo che funzioni proprio così, con gli haiku: non si fanno apposta, capitano per caso. Volevo attaccarlo al frigo, ma non avevamo un frigo, perché non c'era elettricità. Allora l'ho lasciato sul tavolo. Ho messo le mie cose in uno zaino e sono venuto via, a piedi.
Camminando sono passato davanti al nuovo centro commerciale. C'era un cartellone che diceva: SABATO PROSSIMO NOTTE BIANCA AL CENTRO COMMERCIALE CLEBBINO: NO AL DOPING, SI' ALLO SHOPPING!!!

12 settembre 2013

Era bello aspettare

Dopo un po' a guardare l'effetto neve in tv uno si stanca, perché la trama è difficile e complessa, i personaggi sono tanti, l'inquadratura fissa non aiuta. Allora l'altra sera ho spento la tv e sono andato in cucina, in cerca di qualcosa da fare. Sul fornello c'era la mia vecchia moka nera da due, ho pensato che potevo farmi un bel caffè doppio, visto che tanto non avevo nessuno con cui dividerlo perché Betsabea è stata fatta a fettine e Domenico è sparito (e del resto non beve caffè). Ho preso in mano la caffettiera e ho iniziato a sciacquarla sotto il getto del lavandino, e ho visto che il nero veniva via. Allora ho capito che la caffettiera non era nera, era soltanto sporca, strati di calcare e caffè bruciato che l'avevano fatta diventare perfettamente nera, e mi avevano portato a pensare che fosse quello il suo colore. Il nero. Invece no. Allora ho preso una paglietta di lana d'acciaio, sono andato a sedermi sul divano e ho cominciato a sfregare la caffettiera con la paglietta, lentamente, grattando via il nero. Mentre le ore passavano e la notte avanzava io pulivo via il nero dei secoli, prima dalla caldaia, poi dal coperchio, infine dal bricco. Per ore. Ogni tanto il braccio e il polso e le dita mi facevano male e allora cambiavo mano. E da sotto il nero del bricco a un certo punto è spuntato fuori il disegno di un cappello a punta, e allora ho continuato a grattare con la paglietta, con più foga, e quando ho finito c'era il disegno di un omino, era il signor Bialetti, e fuori stava albeggiando e un raggio di sole è entrato dalla finestra e ha colpito il signor Bialetti e tutta la moka ora era lucida e mandava bagliori argentei. Avevo passato la notte a spagliettare la moka sul divano e intanto fuori il sole aveva spagliettato via la notte e poi il sole e il signor Bialetti s'erano incontrati nella cucina di casa mia, e non lo so, questa cosa mi ha riempito di felicità. Adesso potevo farmi un caffè, solo che mi mancava la materia prima, ho guardato in frigo, nella dispensa, niente, polvere di caffè finita. Avevo una caffettiera lustra e illuminata e non potevo usarla, era troppo. Allora ho deciso di farmi il caffè con quello che trovavo, ho preso il serbatoio e ci ho buttato dentro un pugnetto di terra, di quella che avevo comprato un paio d'anni fa e che era ancora ammassata in un angolo, e poi ho trovato un po' di cenere dentro a un posacenere e ci ho buttato anche quella (strano che ci fosse della cenere, io non fumo), e poi ci ho macinato dentro un po' di pepe, poi ho messo l'acqua nella caldaia della moka, ho posizionato sulla caldaia il serbatoio con la roba dentro, poi ho avvitato il bricco, ho acceso il fornello e ho aspettato. Era bello aspettare il caffè. Era da un sacco che non aspettavo più niente e nessuno, era bello avere qualcosa da aspettare, dopo tanto tempo. E infine il caffè è arrivato, annunciato dallo sbuffo della moka. Ho spento il fornello, in cucina s'è sparso un aroma strano, come di grotta e di canottiera di basket sudata rimasta in fondo al borsone un mese. Ho versato il caffè nella tazzina e ho bevuto.
Faceva schifo al cazzo.

2 settembre 2013

So cosa provate

– Sono tornato.
– Perché, eri andato via?
La domanda di Creativo n.3 in realtà non ha il tono di una domanda, ma di un'affermazione. Così non rispondo, anche perché non saprei cosa rispondere, e mi limito a guardarlo. Siamo in piedi davanti al distributore automatico di bevande calde, io sorbisco un 12, lui sorseggia un 31.
– No, scusa sai n.5, è che sono tornato oggi dalle ferie, tre settimane della stramadonna in Nuova Papuasia, quindi ero via anche io, sai com'è. E te? Dove sei stato di bello?
– Nuova Papuasia?
– Anche tu? – fa, e il suo bicchierino di plastica scricchiola di tensione.
– No, no. Volevo dire, Nuova Papuasia non l'ho mai –
– Ehilà, coso 3 e coso 5! – ci interrompe Creativo n.2, irrompendo nella saletta ristoro.
– Coso 2! Come va? – fa n.3.
– Non c'è male, e tu?
– Bene, dài. E tu?
– Ma bene. Che mi racconti?
– Mah, tutto bene. Allora?
– Eh! Dài. E tu?
– Eh, così. Ma come va?
– Te l'ha già detto – faccio io, per interrompere il sortilegio. Mi guardano tutti e due malissimo e intensamente, come se cercassero di scardinarmi il dna con la forza dello sguardo. Scappo via nel mio ufficio. È come l'ho lasciato più di due anni fa. Elegantemente disordinato. Eppure non mi fido. È un disordine troppo consapevole, il blocchetto dei post-it messo in diagonale perfetta, il cassetto della scrivania chiuso male, le Faber-Castell un po' spuntate un po' no, buttate a shangai accanto al telefono. Dev'essere pieno di trappole diaboliche architettate dal reparto Entropia. Faccio il giro della scrivania, mi fermo davanti allo schermo del computer, non oso sedermi. In piedi, do un colpetto al mouse. Lo schermo friccica e si anima. Era in standby. Uno standby di due anni e mezzo. Apro la posta elettronica. Ci sono 6.523 mail da leggere. Ne apro una a caso di cinque mesi fa, è del mio capo:
"Ottimo lavoro Bandini, rapido, efficiente, conciso e chirurgico. Aspetto per stasera il report con i feedback del cliente. Stay angry, stay punished". Non so, pensavo che mi avrebbero licenziato, ma poi mi ricordo che tanto non ero assunto, avevo solo un contratto Co.Pro.Fa.G.O, che mi tutela da ogni rischio di assunzione a tempo determinato o indeterminato vita natural durante. Tiro un sospiro di sollievo. Non proverò mai l'onta del licenziamento, almeno questo.
Non ho voglia di tornare a casa mia, sono pieno di brutti presentimenti, non me la sento. Allora decido di andare a cena da mio padre, gli faccio una sorpresa, dopo due anni e mezzo gli verrà un colpo, magari mi ha dato anche per morto. Sotto casa sua faccio per suonare il campanello, poi mi ricordo che mi aveva lasciato il suo mazzo di chiavi, prima di partire in viaggio per Vladivostok con Maya, allora apro con le sue chiavi, così la sorpresa sarà maggiore.
Entro, chiamando "Babbo!", e nel corridoio inciampo su una valigia e cado giù.
Arriva mio padre. Ha tutti i capelli bianchi. Ma che cazzo. Mi viene voglia di scappare via.
– Sei tu! – mi fa, – Che tempismo! Sono appena arrivato, come puoi vedere.
– Appena arrivato da dove?
– Come, da dove. Добрый вечер. Как дела?
– Cioè, non mi dire che sei tornato ora da Vladivostok.
– Proprio così! Appena tornato!
– No, no, maledizione. No! Sono io, che sono appena tornato!
– Eh? Che vuoi dire? Non hai visto le valigie? Ti dico che sono appena tornato. Che ne sapevo che sei stato via anche tu.
Che cos'è questa storia, uno torna dopo due anni e mezzo, c'ha almeno questa cosa del tornare dopo un sacco di tempo, e invece niente, no, neanche questa soddisfazione gli danno, no, sono tutti appena tornati anche loro, ti pareva. Dai nervi ho lanciato il mazzo di chiavi di mio padre a un pelo dalla sua testa e sono tornato a casa, e non lo so, anche casa mia era uguale a quando me ne sono andato, non è cambiato proprio niente, speravo che ci fosse almeno Domenico a venirmi incontro scodinzolando, anche se non credo che i gechi scodinzolino, ma magari dopo due anni e mezzo che non vedono il genitore sì, e invece niente, nessuna traccia di Domenico. Ho acceso la tv, c'era l'effetto neve. Tutti quei puntini anonimi che apparivano e sparivano in un mare di altri puntini.
– So che cosa provate – ho detto ai puntini.