18 maggio 2015

Sotto il divano

Ho cacciato di casa il mio maestro di Raccolta Differenziata Tibetana dei Pensieri, perché oramai non ne avevo più bisogno. Il tuo lavoro è finito, gli ho detto per giustificarmi. Questo è quello che pensi tu, mi ha detto lui, con l’aria di chi la sa lunga. È proprio quando pensi di aver capito tutto, di aver raggiunto l’obiettivo, che precipiti nel baratro dei pensieri incasinati. Non senti più il rumore di fondo e credi che non ci sia più rumore di fondo, ma non è così: ti sei solo abituato, fino a scambiare il rumore di fondo per silenzio. Così ha detto. Puzzava di aglio e sudore. Ho aperto la porta di casa e gli ho fatto un ampio e armonioso gesto con il braccio, qualcosa che sembrava provenire dalle corti rinascimentali, qualcosa che poteva essere interpretato come: si accomodi via dal cazzo.
Ha protestato che non poteva uscire così. Così come, gli ho chiesto? Così senza scarpe, ha detto. Era scalzo. Non trovava più le scarpe. Abbiamo cominciato a cercarle dappertutto – per la verità, ero io a cercare. Lui è rimasto in piedi al centro della stanza, a guardare con aria di sfida me che cercavo. Come sono fatte?, gli ho chiesto: non ricordavo assolutamente di averle mai viste. Magari, non le aveva mai avute. Mocassini, ha detto lui. Allora mi sono chinato per vedere se erano finite sotto il divano, perché quando una cosa non la trovi è sempre sotto il divano, garantito. Non si vedeva niente, e allora ho allungato un braccio, e le mie dita incontravano sempre qualcosa, piccoli oggetti appuntiti, cose rotonde morbide, filacci, roba granulosa che sembrava terra, cose appallottolate tipo fazzoletti, ma niente che sembrasse scarpe. A un certo punto mi sono arreso, ma non riuscivo più a estrarre il braccio da sotto il divano. Ero incastrato. Con la faccia sul pavimento ho urlato: sono incastrato! Lui, il maestro, senza scomporsi ha detto: è la storia della tua vita.
Fuori di qui, gli ho detto. Fuori di casa mia. Se ne vada, gli ho detto.
E le scarpe?, ha detto lui.
Senza scarpe, ho detto io.
Per il braccio vuoi che ti mandi un fabbro?, ha chiesto lui?
Fuori!, ho urlato io.
E così il maestro di RDTP se ne è andato, scalzo. Ho passato il resto della giornata e la nottata steso sul pavimento, con il braccio incastrato sotto il divano. Alla luce del tramonto potevo vedere il pulviscolo galleggiare nell’aria e depositarsi sul pavimento. Guardare le cose rasoterra è molto istruttivo, certe volte. La mattina dopo mi sono svegliato che mi sembrava di non avere più il braccio. Provavo a muoverlo ma non sentivo niente. Spaventato, ho guardato sotto il divano, e il mio braccio non c’era. Poi mi sono accorto che ce l’avevo ancora, era ancora attaccato alla spalla, solo che non era più sotto al divano, era scivolato fuori nel sonno ed ora era come anestetizzato. Toccandolo con l’altro braccio ha cominciato a formicolare tremendamente, mentre la circolazione riprendeva a fare il suo lavoro regolare. Mi sono seduto sul divano e mi sono chiesto, chissà perché abbiamo due braccia, e non, per esempio, un braccio e un rastrello.
Forse, per applaudire.

14 maggio 2015

I segni dell'ordito

Poi a un certo punto ho capito.

È successo ieri mattina, appena sveglio. Ero steso sul tappeto in canapa del soggiorno sul quale ho dormito negli ultimi mesi. Mi sono alzato, dolorante e ammaccato, e ho aperto la porta di camera mia. Il mio maestro di RDTP dormiva saporitamente nel mio letto, russando supino, gli arti distesi a formare una x.
– Maestro, ho capito – gli ho detto.
– Gnneeeerf – ha mugugnato lui.
– Giorni e giorni a raccogliere e differenziare tibetanamente i pensieri, senza soluzione di continuità, e non ne venivo mai a capo, fino a stamattina.
– Gruooooowh – ha annuito lui.
– Non ci sono pensieri da raccogliere. Non ci sono pensieri da differenziare. Non c’è pensiero e basta. I pensieri non hanno entità. Tentare di raccoglierli, di differenziarli, equivale ad attribuirgli una sostanzialità che non hanno. Ma stamattina svegliandomi con i segni dell’ordito del tappeto di canapa sulla faccia ho improvvisamente capito che i pensieri di per sé non esistono, quindi la RDTP è inutile.
Il maestro si è tirato su a sedere, lentamente.
– Oh, cazzo – ha detto, senza aprire gli occhi. – Credo di essermi cagato addosso.
– Che cosa? – ho detto io, e nell’istante stesso in cui l’ho detto, ho sentito l’odore. Un acre, pungente, profondo, primordiale odore di merda.
– Sì be’. Il fatto è che ho sognato di scoreggiare. Ma invece, evidentemente, awfh, era merda, capisci? Diarrea. Un lago di merda. Mi sa che ci metterai un sacco a pulire. E dovrai buttare anche il materasso. Mi dispiace. Cos’è che dicevi?
Stavo per ripetergli la storia dei pensieri che non esistono e del fatto che finalmente ero libero, ma questa cosa della merda – la puzza stessa, della merda – mi si era rivelata in tutta la sua potenza. Allora ho cominciato a ridere a perdifiato.
– Mpfr? – ha detto il maestro.
– La merda – ho detto io, strozzandomi tra le risate – la merda!