31 agosto 2017

Ma che è questa fretta vorrei sapere

“Affréttati!”
“Cosa aspetti?”
“Corri a”
“Non perdere tempo”
Oggi come oggi le pubblicità delle cose non solo vogliono convincerti a comprare quelle cose, ma pretendono che tu lo faccia anche alla svelta. Cioè non si accontentano di avere dei consumatori, vogliono anche che siano consumatori tonici, sportivi, scattanti, gente d’azione, dei bruce willis dell’acquisto. Mai una volta che ti dicono “che ne diresti di provare questa cosa? Pensaci su con calma. Hai tutto il tempo per farlo”, no, macché, sembra di stare al fottuto addestramento dei marines, dove c’è il sergente stronzo con la mascella quadrata che ti tratta come un rammollito e ti urla nelle orecchie ordinandoti di darti una mossa.
Cioè ma chi cazzo vi credete di essere?
Mi dovreste stendere i tappeti rossi e trattare con tutte le buone maniere e le gentilezze del mondo, visto che sto pensando se comprare o no la vostra merda. Quindi vedete di piantarla con questi toni da motivatori aziendali ed esaltati del fitness.
Cos'è, da piccoli le vostre mamme non ve l’hanno insegnato, che le cose si chiedono per piacere? Ma l’educazione dove l’avete lasciata, nel cestino della merenda dell’asilo? Razza di buzzurri mentecatti che non siete altro.
Io, quando mi dite di non aspettare, di cogliere l’attimo, mi siedo sul mio divano, ingollo una pasticca NonCiPensare® Clebbino e infilo un dito nel culo della mia pecora gonfiabile, e aspetto che il tempo faccia il suo dovere, spazzandovi via.

8 agosto 2017

Come Thelonious Monk quando non suona

Ieri è venuto a trovarmi mio padre. Dopo aver fatto le scale a piedi aveva il fiatone, allora ho preso il mio Diario delle Condizioni Psicofisiche Paterne (DCPP) e mi sono appuntato la cosa con tanto di data. Cos’è che scrivi lì, mi ha chiesto lui col fiatone. Gli ho spiegato che era il mio Diario delle Condizioni Psicofisiche Paterne (DCPP) nel quale avevo deciso di tenere traccia di ogni segno di decadimento fisico o psicologico relativo alla sua persona, lieve o serio che fosse.
– Per quale motivo fai una cosa del genere? – ha chiesto con un tono di voce alquanto risentito –, perché non ti scrivi il TUO diario delle TUE condizioni psicofisiche?
– Cosa c’è che non va? Ho pensato che, poiché condividiamo buona parte del corredo genetico, tenere traccia dell’insorgenza dei tuoi problemi di salute e del loro sviluppo può aiutarmi a capire a che cosa sto andando incontro e quindi correre ai ripari finché sono in tempo.
– Ah è così? Allora forse da qualche parte ti conviene anche scrivere che tua madre è morta di cancro, anzi forse è più rilevante rispetto a un mio lieve e trascurabilissimo nonché momentaneo affanno, non credi?
– Sei veramente terribile.
– Senti ma quel geco se ne sta sempre lì?
Ha indicato il punto sul muro dal quale Domenico lo stava fissando con rettile severità.
Io ho alzato le spalle.
– Lo hai tipo adottato?
– Ma che adottato. Sono il suo padre biologico.
Mi ha guardato strizzando gli occhi.
– Suo padre biol... no, non dirmi niente. Non lo voglio sapere.
– Senti, non prendere come una cosa personale il fatto che tengo un diario del tuo decorso vitale, okay?
– Cosa vuoi che me ne freghi. Immagino che si interromperà con la mia morte.
– Sai com’è.
– Ha! Perché dopo non potrai più sapere quello che faccio!
– Un bel niente, non farai.
– Questo lo dici tu, profano! – ha detto con aria di sfida, – perché non hai idea di come funziona la morte.
– E tu invece sì.
– Sì! Certo che ce l’ho! La morte è Thelonious Monk che fa cose quando non suona.
Ho guardato mio padre. Thelonious Monk? Moriva dalla voglia di spiegarmi, si capiva benissimo. Solo che io invece non avevo nessuna voglia di stare ad ascoltare la sua ennesima strampalata spiegazione. Ma che dovevo fare: è mio padre, i padri spiegano le cose ai figli, i figli fanno finta di ascoltare le spiegazioni dei padri. Mi sono seduto sul mio divano e ho aspettato la spiegazione, e la spiegazione è partita.
– Allora: tu lo sai che io non sono un grande appassionato di musica, a differenza di tuo zio Piero, e tanto meno di musica jazz, non ne so niente, e pazienza. Però conosco piuttosto bene – perché proprio tuo zio mi regalò anni fa un suo disco live – alcuni pezzi di Thelonious Monk, e tra tutti il mio preferito, Blue Monk, con quelle due bellissime progressioni di quattro accordi iniziali, e quel modo pazzo di suonare che aveva, tutto nervoso, fatto di interruzioni brusche e dissonanze, hai presente.
– Ce l’ho presente sì. Era la colonna sonora delle domeniche pomeriggio invernali, da piccolo.
– Ecco. Allora ti ricordi che a un certo punto poi attaccano a suonare anche sax, contrabbasso e batteria; e che a un certo punto il pianoforte di Monk non si sente più, per un po’, come poi capita spesso nel jazz no? che uno strumento sta zitto e lascia parlare gli altri, o se ne stanno tutti zitti e parla uno solo, e poi riprendono tutti insieme...
– Sì sì ok, e quindi?
– Il punto è: che cosa fa Thelonious Monk quando non suona? Ascoltando il disco, in tutti questi anni, io me lo sono sempre immaginato seduto lì, al pianoforte, immobile, ad aspettare il momento di rientrare; anzi, a dire il vero neanche questo, tutte le volte che a un certo punto del pezzo il pianoforte spariva, per me spariva anche Monk, non esisteva più, non c’era e basta.
– Poi però?
– Poi però è successa questa cosa: è successo che l’altra sera mi era tornata voglia di sentire Blue monk ma non avevo idea di dove fosse finito il disco. Allora sono andato su youtube e ho trovato il video di una versione di Blue monk suonata dal vivo da qualche parte in Norvegia o in Danimarca, negli anni Sessanta. E così ho potuto finalmente vedere per la prima volta Thelonious Monk suonare il piano, con quelle dita piatte sbattute sui tasti, i gomiti che scattano su, quei gesti secchi che sembrano quasi più da pugile – categoria pesi leggeri – che da pianista. Ma soprattutto ho potuto vedere che cosa faceva quando non suonava. E sai cosa faceva? Mentre sax, contrabbasso e batteria andavano per la loro strada senza il suo pianoforte, lui si alzava in piedi, cominciando a passeggiare avanti e indietro, guardando per aria, come cercando qualcosa, e poi cominciava a un tratto a ballare, ondeggiando qua e là sulle gambe, asciugandosi il sudore, per poi tornare a sedersi al piano un secondo prima di riattaccare a suonare, e poi all’improvviso si alzava di nuovo, e come un passante  capitato lì per caso si fermava a guardare il contrabbassista durante il suo assolo. Insomma, uno show continuo.
– Mh.
– E quindi capisci, fino all’altro giorno per me Monk quando smetteva di suonare spariva, inghiottito dal silenzio, e invece lui è sempre stato lì, a riempire le pause camminando, ciondolando, guardando in su e ballando, fino al momento di tornare a suonare. Perciò ecco come stanno le cose, ecco come sarà essere morto: tutti voi crederete che sarò stato fagocitato dal nulla, e invece me ne starò semplicemente lì, non visto, a camminare curiosare ballare in mezzo a voi, a guardare con le dita intrecciate dietro la schiena come ve la state cavando senza di me, fino a quando non sarà il momento di tornare in scena.
E detto questo si è messo a ballare, muovendo i gomiti e dondolando lentamente sul posto e mugugnando il tema di Blue monk, davanti a me che lo guardavo seduto sul divano, e non aveva più il fiatone, era Thelonious Monk, era il monaco pazzo, era mio padre.

5 agosto 2017

Il caldo killer

Sono andato da Mediaworld per vedere a scrocco sulle tv in esposizione l’ultima puntata di Piccoli Casi Umani (aka Casini Umani) che raccontava la storia di questo investigatore privato in pensione che ormai trascinava le sue giornate nella noia e nell’inedia, leggendo giornali e guardando telegiornali. E d’estate sui giornali e sui telegiornali di tutto il Paese non si faceva che parlare del “caldo killer”, questo temutissimo assassino seriale che stagionalmente si rifaceva vivo uccidendo prevalentemente anziani ma che anche non disdegnava i bambini e i cardiopatici. L’investigatore privato in pensione ogni volta chiudeva il giornale o spegneva la tv e accendendosi la sigaretta elettronica si chiedeva chi fosse questo maledetto serial killer detto “il Caldo”, dalle probabili tendenze gerontofile-pedofile, che prendeva di mira i soggetti deboli della popolazione. E le forze dell’ordine che facevano? Niente! Brancolavano nel buio, come al solito. E l’arma del delitto? Sconosciuta. L’investigatore privato pensionato non ci dormiva la notte, complice l’afa, che lo faceva girare e rigirare sul letto.
Allora decise che era il momento di tornare in azione. Di risolvere quell’ultimo caso, di sua iniziativa, acciuffare quel bastardo senza scrupoli che uccideva per il solo piacere di uccidere, e consegnarlo alle autorità; dopodiché sarebbe potuto tornare alla sua vita dimessa, alle sue sigarette elettroniche fumate ascoltando il suo 45 giri preferito, Some of These Days di Sophie Tucker.
Liberò dalla naftalina il suo impermeabile grigio stazzonato, nonostante fosse estate inoltrata, tirò fuori dal cassetto la sua Beretta 92, e sudando copiosamente una mattina di agosto si mise alla guida della sua Lancia Fulvia del ‘74, girando per le strade della sua città, secondo dove lo portava il suo fiuto.
Si appostò nei pressi della stazione ferroviaria metropolitana, di fronte a un baretto gestito da cinesi, sotto al cui porticato quattro vecchi in canottiera giocavano a carte.
Quattro vittime potenziali, pensò.
Spense il motore della Fulvia, e parcheggiato sotto a un sicomoro decise che avrebbe aspettato lì. Il Caldo avrebbe fatto un passo falso, prima o poi. Lui non aveva fretta. Aveva tutto il tempo del mondo.
La sua prostata però non era d’accordo. Dopo dieci minuti uscì dalla macchina e si diresse verso i cessi della stazione. Il sole picchiava verticale, la strada ondeggiava. L’impermeabile gli si era incollato addosso come la pupa di un postribolo degli anni Trenta. Bei tempi, quelli!
Ansimando entrò nel cesso, al binario uno. Dopo tutta quella luce, la penombra in cui era immerso il gabinetto lo rese cieco per qualche istante. Avanzò barcollando fino all’orinatoio. Rivoli di sudore scendevano dal suo capo inzuppandogli il collo. C’era come una nebbiolina nell’aria, le piastrelle sembravano vibrare impercettibilmente e gli sembrò di sentire, lontane, le note di una canzone conosciuta.
Poi sentì dei passi alle sue spalle. Senza chiudersi la patta estrasse la Beretta dalla tasca dell’impermeabile e si voltò di scatto.

Some of these days
You'll miss your honey
Some of these days
You'll feel so lonely


Lo ritrovarono gli agenti della Polfer, riverso in un lago di urina e con la Beretta ancora in pugno. L’arma era scarica. Nella sua auto ritrovarono un taccuino, dove aveva meticolosamente trascritto gli appunti della sua indagine, gli indizi, le supposizioni. Il giorno dopo il principale quotidiano cittadino titolò:
IL CALDO KILLER COLPISCE ANCORA
VITTIMA UN PENSIONATO DI 78 ANNI
Il corpo senza vita trovato dagli agenti della Polizia Ferroviaria