17 settembre 2015

Tutti mi chiedevano il nome del cane

Sono andato da Mediaworld perché volevo qualcosa di wireless, neanche io sapevo cosa – ma tanto avrei chiesto ai commessi, loro mi avrebbero sicuramente trovato qualcosa.
– Avete qualcosa di wireless? – ho chiesto al commesso del reparto piccoli elettrodomestici.
– Che ne dice di un minipimer? – mi ha risposto lui. Non mi sembrava abbastanza fico un minipimer wireless e allora sono andato al reparto televisori.
– Avete qualcosa di wireless?
– Wireless?
– Significa senza fili.
– Lo so che cosa significa wireless – ha detto il commesso, risentito, – che cosa cerca esattamente?
– Qualcosa. Non lo so, qualche nuovo arrivo.
– Qui ho un telecomando universale.
– Universale?
– Significa che –
– Lo so che cosa significa “universale” – ho detto io, e me ne sono andato. Che me ne facevo di un telecomando che comanda l’Universo? Che razza di responsabilità avrei avuto? Magari premevo un tasto per mettere meglio a fuoco la luna e per sbaglio provocavo una tempesta elettromagnetica nella galassia Vortice, costellazione boreale dei Cani da Caccia – me l’ha fatta vedere una volta mio padre, la galassia Vortice, con un binocolo, una sera degli anni Ottanta del secolo scorso, quando Mediaworld non esisteva ancora, come quasi tutto.
Sono uscito da Mediaworld e fuori c’era l’addetto alla vigilanza che stava fumando.
– Era un po’ che non venivi – mi ha detto.
– Tu dov’eri negli anni Ottanta del secolo scorso?
– Da nessuna parte.
– Che cos’hai che non va?
– Niente. È che non ero nato.
Già, perché c’è sempre più gente in giro che non c’era, negli anni Ottanta, proprio come Mediaworld. E ce ne sarà sempre di più. C’è già un sacco di gente che non c’era proprio, nel secolo scorso! E va in giro come se niente fosse! Prende i nostri stessi autobus! Va a scuola! Come se niente fosse!
È passata una donna con un cane. Pensavo che il cane mi avrebbe pisciato sulle scarpe, perché ho delle scarpe veramente malconce, un autentico archivio di odori e istanze territoriali, come un motore di ricerca, un motore di ricerca per cani, qualsiasi cosa questo significhi – un po’ come a noi piace fare le nostre pisciatine su Google. Ma invece no, è passato oltre.
– Anche io avevo un cane, una volta – ha detto il vigilante.
– Poi hai smesso?
– Sì.
– Perché?
– Perché quando andavo in giro con lui, tutti mi chiedevano il nome del cane, e nessuno mi chiedeva il mio. Ogni volta tornavo a casa che il cane mi tirava, tutto gasato, e io ero nessuno, a nessuno fregava niente di me, ero meno di un cane.
– Ha un senso. Certa gente pensa che gli animali sono più umani degli umani.
Il vigilante mi ha guardato.
– Il problema degli esseri umani non è che non sono abbastanza umani. Il problema è che non sono più esseri. Sempre meno esseri, sempre più averi. Ormai sono degli averi umani.
– Cazzo, si vede che studi filosofia alle serali.
– Gli averi umani sono delle autentiche teste di cazzo – ha aggiunto.
– E meno male che non c’eri negli anni Ottanta – ho detto io.

3 settembre 2015

Pellicola alimentare e manufatti memoriali

Mio padre è passato a trovarmi mentre cercavo di sigillare con la pellicola un piatto con degli avanzi di cibo. Io non lo so chi abbia inventato quella roba, la pellicola per alimenti intendo – sembra fatta apposta per uccidere un uomo, fisicamente e psicologicamente. Prima di tutto non si sa perché ogni volta che tiri fuori la confezione, la pellicola è sempre regolarmente arrotolata al cilindro, e ci vogliono secoli per trovarne il capo e soprattutto per distaccarla dalla pellicola sottostante. Poi finalmente quando ci riesci, cerchi di srotolarne una quantità bastevole alla bisogna, e quella improvvisamente diventa refrettaria alla pelle umana: si deforma sotto le tue dita, si attorciglia tutta di lato, si lacera, esce tutta sghemba; e quando finalmente decidi che ne hai srotolata abbastanza, cerchi di reciderla utilizzando il bordino seghettato, ma la pellicola diventa a un tratto resistentissima e non riusciresti a tagliarla neanche con il laser, e quando finalmente ci riesci – operando un taglio tutto obliquo e sbocconcellato, e provocandoti gravi tagli sanguinanti ai palmi delle mani per colpa del bordino seghettato di cui sopra, appena si stacca, la pellicola si contrae tutta appallottolandosi in una sfera indistricabile, che mai e poi mai riuscirai a ridistendere, se non malamente e a prezzo di indicibili bestemmie. Dunque ero lì mezzo avvolto nella pellicola per alimenti, che mi dibattevo lottando con il polietilene e grondando sangue, sotto gli occhi impassibili di mio padre.
– Stai cercando di suicidarti? – mi ha chiesto a un certo punto.
– Grazie mille per l’aiuto – ho risposto.
Dopo che mio padre mi ha liberato dalla morsa della pellicola alimentare con l’aiuto di un provvidenziale taglierino, provocandomi come danni collaterali alcuni tagli del resto poco profondi, io mi sono seduto stremato sul divano e lui si è dedicato al suo sport preferito: denigrarmi.
– Io non capisco come sia possibile alla tua età essere così inerte.
– A quale inerte ti riferisci in particolare? – ho chiesto io, che adoro puntualizzare, – ghiaia? Sabbia?
– Dovresti fare qualcosa per te stesso.
– Perlite? Argilla espansa? Vermiculite? Quale inerte esattamente?
– Ti comporti come se non avessi più un passato.
– Vuoi dire: futuro.
– No, voglio dire passato.
– Ma di che parli, il passato è passato, nessuno ce l’ha più.
– No, quello che nessuno avrà mai è il futuro. È futuro, puoi solo immaginarlo, è solo orizzonte. È roba intoccabile. Ma il passato si forma continuamente, ce n’è sempre di nuovo, e resta lì, sempre a portata di mano, se ti ricordi dove lo metti, beninteso.
– Assì eh? E il presente allora?
Mio padre ha alzato le spalle.
– È la fabbrica del passato, no? Il presente è il nostro lavoro quotidiano, il passato è il frutto del nostro lavoro. Questo facciamo ogni giorno, fabbrichiamo ricordi. Tu invece sei in sciopero, a quanto pare. Sciopero continuato.
– E tu invece che cos'è che staresti facendo, di tanto produttivo?
– In questo momento per esempio sto cercando di costruire un bel ricordo, tutto bello tornito, di me che parlo con mio figlio. Un manufatto artigianale di pregiata fattura, da rigirarmi in mano di quando in quando, tra qualche anno. Ma tu me lo stai rovinando, purtroppo. Mi sa che dovrò buttarlo via.
Per un momento ho pensato di prendere il seghetto della pellicola alimentare per segare la giugulare a mio padre. Non l’ho fatto, ma adesso in compenso ho fabbricato questo ricordo di me che ho pensato per un istante di ammazzare mio padre, e l’ho fatto pure senza rendermi conto, e dovrò portarmelo dietro per il resto dei miei giorni, a meno che non ricominci a fare la Raccolta Differenziata Tibetana dei Pensieri, ma col cazzo che rischio di ritrovarmi tra i piedi il mio maestro di RDTP, meglio convivere con ricordi di maldestre intenzioni omicide che con la puzza del suo alito.